La pittura di Fiannacca

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La pittura di Fiannacca

La pittura di Luciano Fiannacca si presenta così come una proposta, da un lato specifica e storica sulle tecniche, spazi e materiali pittorici, dall’altro personale sui modi di sentire e di rappresentare. Essa infatti mi sembra ritagliarsi nel panorama contemporaneo uno spazio non nuovo nei vocaboli ma originale negli esiti. Intanto egli appartiene ad una generazione in germinazione, ancora tutta da collocare nel panorama della pittura contemporanea. E’ infatti maturo, senza più lo sventolio di bandierine di chi deve e vuole farsi sentire a tutti i costi, e ancora giovane, senza la raggiunta calma e la pregnante tranquillità di chi ha individuato i segni del proprio sentiero-destino, inoltre già ha alle spalle più di un decennio di professione vissuta con appassionata devozione.
Guardiamo i quadri, cerchiamo di vedere,: Questi ultimi lavori di Fiannacca si differenziano dalla produzione precedente per un maggior approfondimento della sostanza materica e per una maggiore libertà del gesto. La superficie della tela ha una profondità storica; Luciano al di là dei maestri dell’action-painting, come Gorky e Pollok (indiscutibili le basi americane del suo linguaggio) ha curiosato dentro Bissière ed Alechinsky applicando spazi e distanze europee e, di proprio, una luminosità mediterranea, direi addirittura ligure. Anche i colori sembrano apparentemente meno gradevoli, i contrasti e le luci che essi contengono evocano nuove suggestioni. Del resto in questa pittura ogni colore, come nella musica ogni nota, non ha una valenza in sè, ma l’acquista in rapporto con gli altri; la percezione varia continuamente, ogni quadro è norma e microcosmo, soltanto al suo interno è possibile individuarne la legge armonica. I neri ed i grigi, ad esempio, non sono semplici sfondi, bensì fondali che fanno risaltare le trasparenze dei verdi, degli aranci e dei blu che si coagulano in vortici, colano frantumandosi o esplodono brulicando: insomma sembrano muoversi ancora. Immaginiamo Fiannacca davanti alla tela nuda: lo spazio del suo studio, immerso nel verde, e i suoi passi; prepara la tela e il gesto si mette in moto, libero artefice e costruttore di sé stesso: egli non vuole, lì ed allora, “neppure sapere se prima di me ci sono stati altri pittori”, dimentica Pollok e altri, o meglio essi gli rimangono dentro al pari del colore del cielo e delle arance, del verde del bosco fuori e del grigio delle ardesie dei tetti segnati dalla pioggia e dal tempo, dove sarebbe anche bello, come i pittori liguri antichi, eventualmente riprovare a dipingere.
Mi sembra infatti che si possa cogliere il vero valore del dipingere di un pittore solo se riusciamo a cogliere questa straordinaria condizione del mettersi a dipingere, la grande tensione che lo invade quando vuole e “deve” lavorare, quando la disponibilità del corpo e della mente si fa una e totale, e la concentrazione fa sì che la mano e il pennello si identifichino. E’ un correggere e continuare imprevedibile, un rapporto col proprio fare dialettico e sentimentale, dove talvolta i colori si esaltano per contrasto (certi verdi e certi aranci), talvolta si richiamano ritmicamente (certi blu e certi gialli), dove il vortica può incontrare dissonanze acute prima di comporsi dentro il quadro. Forse sono proprio certi scontri disarmonici e alcune contraddizioni dello spazio ad evocare più da vicino la realtà contemporanea dentro e fuori di noi. Questo paesaggio che invia segnali alla nostra sensibilità è oggi un ininterrotto artificio dove storia e cultura (storie e culture) hanno trasfigurato e reso irriconoscibile il naturale.
Ma da qui, da questo “grembo”, non si scappa, non si vuole e presumibilmente, non si può: se si tratta però di continuare il sistematico confronto con un reale in continua incontrollabile modificazione, di sottoporsi alla incessante pioggia di inverificabili informazioni, di subire il frettoloso consumo di osservatori distratti, Fiannacca almeno rivendica per sé il diritto di essere di volta in volta specchio infedele o appassionato, ermetico o deformante, derisorio o partecipe.
La modernità vera di questa pittura, di questo scavo più che decennale dentro la storia dell’astrattismo, acquista ora un profilo anche morale e consiste in fondo nel sapere quello che non è oiù possibile, è non accettare ammiccamenti estetici o analogici; Luciano non ha mai percorso corsie preferenziali allineandosi con certa critica di “programma”, non coltiva il lirismo dell’effimero: la tensione dell’io viene da un’urgenza profonda e non si semplifica, non sempre si traduce, concedendosi il rischio di rimanere in parte inascoltata. Un pittore e il suo spettatore: individualità che si incontrano nel fluire di esistenze complesse, probabilmente in sintonia piuttosto comunicandosi disagi ed incertezze attraverso un linguaggio allusivo e sensoriale, che dichiarandosi reciproche fedi e verità nei linguaggi storicamente riconosciuti.
Peraltro il pittore produce senza appropriarsi di nulla, in pura perdita se vogliamo, ma anche in assoluta libertà.
Ecco una bella lezione di distacco.

“Non si tratta soltanto di conseguire un risultato, quanto di modificare un problema” che altri, dei tipi simpatici, nella storia della pittura che ci siamo inventati, hanno tentato di risolvere prima di noi; cosicché è sempre necessario dipingere “non per fare un’opera, bensì per sapere dove un’opera può giungere” (R. Barthes).

Sono certa che queste braccia di Fiannacca potranno ancora più largamente distendersi, magari tra gli spazi che la luce riuscirà ad aprire e liberare all’interno delle pennellate: quando il vuoto, cioè, si libererà dell’ansia, quando all’horror vacui si sostituirà la coscienza di aver raggiunto il proprio spatium serenitatis. E allora , caro Luciano, questa tua folle idea di coniugare la tensione fisica della pittura di De Kooning con la tensione lirica di Licini, mi piace molto. Come mi piace la tua idea che Amalasunta sia esplosa in volo “levandosi” da una di questi paesaggi post-atomici: Ma quello che mi affascina in fondo più di ogni altra cosa è questo tuo silenzioso e “rabbioso” rimanere dentro ai tuoi quadri, Questa tua inquieta ma caparbia presenza, questo non so che di insaziato.

Brenda Bacigalupo, aprile 1988